Riflessioni di un clinico che fa diagnosi

Le mie riflessioni dopo giornate passate a fare e a restituire diagnosi a giovani adulti o ai genitori

  • Cos’è una diagnosi? 
  • Come e perché si arriva a una diagnosi?
  • Qual è l’effetto di quella etichetta diagnostica?
  • Cosa farsene?

Queste le domande che mi faccio oggi e ogni volta che mi approccio ad un percorso diagnostico. Queste sono le domande che ogni clinico dovrebbe porsi mentre si approccia a una persona che chiede una diagnosi, per sé o per il proprio figlio.

La diagnosi è un processo conoscitivo, compiuto da chi quella diagnosi la formula, ma è anche un momento conoscitivo per se stessi (per chi riceve la diagnosi) e un momento in cui un genitore conosce e riconosce il proprio bambino in maniera differente. 

La diagnosi è, anche, un incontro con la persona (piccola o grande che sia) davanti a noi e con il suo mondo. Il momento della restituzione della diagnosi è il momento in cui rimandare all’altro quello che ho visto, quello che intravedo, la lettura che faccio del suo passato alla luce di quello che vedo oggi, la possibile previsione del suo futuro in base all’oggi. 

È una responsabilità: la responsabilità di essere onesti, la responsabilità di aprire bene gli occhi, la mente e il cuore per far entrare tutto il possibile.

La capacità della modalità di comunicazione di una diagnosi è importante per la persona e per la sua famiglia. Quel momento è prezioso: è il momento che aspettano con grande ansia e preoccupazione. È un momento carico di timori, rabbia, tristezza e senso di colpa. 

Un clinico non può sottovalutare il modo in cui comunica la diagnosi. Io provo sempre a pesare le parole. Cerco sempre il modo per dire all’altro “Tu vali!”, “Tuo figlio vale” a prescindere dalla diagnosi. 

Con la diagnosi la persona perde un po’ la rappresentazione di sé che aveva creato, è costretta a ripensarsi e ricostruire la propria identità a partire da quello che il clinico dice. Il senso di sicurezza e la propria autostima vacilleranno se il clinico non sarà in grado di sostenere gli sforzi fatti fino a quel momento per stare al mondo nel modo migliore possibile.

Con la diagnosi un genitore è costretto a fare i conti con l’immagine ideale del proprio bambino, con l’immagine di se stesso come padre o come madre di quel bambino. Anche in questo caso il senso di sicurezza e la propria autostima vacilleranno se il clinico non sarà in grado di sostenere quel genitore e rimandare l’importanza di tutte le scelte fatte fino a quel momento.

Una diagnosi è un percorso che parte dal passato, attraversa il presente e si proietta al futuro. Un clinico non può dimenticarselo, non può mettere solo gli occhiali del presente, rimanendo cieco verso il passato e verso il futuro.

Una diagnosi è un processo di osservazione e ascolto, oggettivo e spesso standardizzato, ma che non può esulare dal considerare anche quello che non si vede, ma che ha grande impatto sulla vita di ogni essere umano: le emozioni. Di quello stato emotivo lì ci si deve occupare, anche, e soprattutto nel momento della diagnosi. Dobbiamo avere il coraggio di guardare quelle emozioni, riconoscerle, nominarle, legittimarle alla persona che abbiamo di fronte e che ha il diritto di provare ciò che sta provando, che sia paura, tristezza, rabbia o sollievo e felicità. E noi abbiamo il dovere di accogliere quelle emozioni e accompagnare alla loro gestione, se necessario.

Abbiamo il dovere come clinici di fare una diagnosi accurata, ma anche di accompagnare la persona e la sua famiglia a comprendere quella diagnosi, a fare scelte accurate e adeguate alla luce della diagnosi, a riconoscere il valore positivo di se stesso e/o del proprio bambino, a prendere decisioni per il proprio futuro o per il futuro del proprio bambino.

Io valgo come clinico se faccio in modo che chi mi è di fronte senta di valere come persona e si senta riconosciuto e apprezzato per quello che è, a prescindere dalla diagnosi e forse anche grazie alla diagnosi.

Ricordiamoci di entrare nella vita degli altri con attenzione, tenerezza, OKness e tanto rispetto.

Maddalena